venerdì 30 giugno 2017

Di librerie pullulava, la città, ma solo in centro.



Nato da un idea di Silvia Avallone

Di librerie pullulava, la città, ma solo in centro.
In periferia, a Barra,  qualche libro lo vendeva l’edicola. Ma solo i titoli, i bestseller. Nel mio quartiere le pagine più vendute erano quelle di cronaca, nera e sportiva, morti ammazzati e Maradona. Io frequentavo l’umida edicola dove si incrociavano Via Figuerelle e Corso Sirena, dove acquistavo quintalate di Topolino, anche vecchie copie. 

Mia madre invece leggeva i romanzi Harmony, come credo tutte le casalinghe d’Italia, non solo di Voghera, a cavallo tra gli anni ottanta e novanta. E li scambiava, ogni due romanzi potevi averne uno, sempre usato. Così restavano in casa nostra appena il tempo di essere letti; mamma li divorava.

Il primo libro che ho letto io è stato “I ragazzi della via Pal”. Regalo di uno zio che lavorava in centro, dove c’erano le librerie, quelle vere. Copertina in cartonato giallo.  Non l’ho letto, l’ho bevuto, d’un fiato, senza respirare, come quando andavo in apnea al mare, mentre gli altri si crogiolavano al sole. Era il 24 settembre giorno del mio compleanno. 

Per me leggere è sempre stata una scommessa. Non un manifesto, ma una cosa intima. Mi vergognavo, perché gli altri erano tutti per il calcio e la bici e gli sport di strada e la sopravvivenza, in un posto dove la strada è il centro nevralgico della vita (la periferia di Napoli). Ed io a calcio ero lento e grasso, e sulla mia Graziella non correvo nemmeno se ero trainato; leggere non era fisico, ero qualcosa di statico come me all'epoca.

Vennero poi gli anni delle superiori, dell’istituto tecnico. E non il liceo perché dopo dovevi andare “per forza” all’Università, e chi sapeva se potevamo permettercela? Meccanica, per la precisione. In classe con me di tutto: ripetenti ventenni e ragazzi in permesso studio dal penitenziario. 

Per me era un gioco. Credo che mia madre non mi abbia mai visto restare sui libri più di venti minuti. In classe mentre ero bersagliato da insulti, cassini dietro la testa e rotoli di carta igienica, riuscivo a scrivere ogni singola parola che veniva proferita dai professori. Era semplice, a casa bastava giusto fare le consegne scritte. E poi registravo. Registravo cassette per Umberto, mio compagno di banco, cassette in cui spiegavo dalla storia alla fisica. Certo con ”Aggiustaggio” non ero una cima, ma questa materia l’hanno poi soppressa. 

E poi io leggevo, senza riscuotere successo. Non facevo colpo. Ero la minoranza assoluta. O forse no, lo scoprii molto tempo dopo. Di notte sotto le coperte con una lampadina. Cosa che mi ha portato a profonde borse ancora oggi visibili. Ma perché mi nascondevo? Mi sentivo inadeguato per il mondo che mi circondava. 

Più che discoteche, i ragazzi del ’79 e dei primi anni ottanta, negli anni ’95 e a seguire, occupavano circoletti, scale di palazzi e muretti, ma a Barra e precisamente sulla Residenziale (quella che in realtà si chiama via delle Repubbliche Marinare) si radunavano sotto al ponte, dove adesso si radunano solo tossici e contrabbandieri) per giocare a tutte le ore al calcio. Non si ascoltava musica, forse qualcuno i neomelodici, che a Napoli sono sempre esistiti. Io avevo le cassette di Lucio Dalla e dei Queen registrate a casa di mio zio, si, quello del primo libro, e la sua chitarra e poi anche la mia. A calcio non contavo niente. Anche quando servivo per fare numero, era come non esistessi in campo, o meglio, sotto al ponte. La chitarra non era poi d’aiuto, non sapevo suonare canzoni moderne, solo Daniele e Battisti e nemmeno bene.

Non riuscivo ad espormi, non volevo. Quando iniziai a migliorare, con la chitarra alle feste venivo chiamato, per suonare  mentre i miei amici ballavano i lenti. Ero certamente goffo, non so fino a che punto sbagliato. Quando raramente venivo a contatto con la palla, ero imbranato e non mettevo insieme nemmeno un passaggio. Quando raramente mi piaceva una ragazza, ero il cantastorie ed il pivello. E allora fantasticavo. Sognavo ragazze, ragazze che sognavano i miei amici svegli e spudorati. Sognavo di conquistarle con frasi tratte da Narciso e Boccadoro o con una canzone di Pino, “Allora si”. 

E così poco dopo partii per Lourdes, come barelliere. Non avevo ancora diciotto anni, ero fissato con una ragazza che mi credeva il suo miglior amico e conobbi il mio sosia femminile. Non dimenticherò mai le sue lettere, poche a dire il vero; non dimenticherò mai quella citazione che mi ha cambiato la vita, di una delle Bronte. Almeno per quella settimana fui diverso. Mi senti Salvatore grazie a Valentina da Eboli. Una ragazza da liceo che leggeva le Bronte in inglese e che adorava Pino Daniele che vibrava sulla mia chitarra, mentre ubriaco solo di felicità cantavo sotto al suo albergo a Lourdes. Fini affievolendosi man mano, ma è restato come la cicatrice di un taglio su di un dito.

Un passo indietro. Quando ebbi l’età per potermi recare in centro da solo, verso i quattordici anni, iniziai ad esplorate le bancarelle di via Mezzocannone, comprando un mucchio di libri. Da Edgar Allan Poe, al primo Baricco, da Wilbur Smith alla biografia di Jimi Hendrix. Ne sfogliavo a milioni. E quell’odore di carta che mi sembra ancora di sentire era carburante per i miei muscoli mentali. Così i miei dovettero comprare una libreria. Non ho mai letto però un classico o di filosofia. Qualche anno dopo avrei scoperto la letteratura americana, sempre più giovane. Così sono passato da Steinbeck a Carver tra Auster e De Lillo, fino ad Eggers e a Safran Foer.

Curiosando nella mia libreria a Bologna, ti accorgerai che però i titoli sono variegati. Il più vecchio è un manuale di Fisica di fine ottocento, il mio più caro un Libro Cuore dei cugini di mio padre, ed una quantità sconsiderata di ogni genere. Calvino a gogò, tutto Brizzi e Ammaniti, qualche giallo e qualche Horby. Ma anche qualche enciclica di fianco a Bukowski.

Non è stato facile vivere la mia gioventù. Non sentirsi adatto, non sentirsi se stesso. Non sentirsi nessuno e non sentire nessuno come te. Litigare con tutti. “Sei sempre nervoso” mi dicevano e mi dicono ancora. “Sei permaloso”. Quando invece volevo solo che le cose qualche volta fossero dalla mia parte. La routine che si era impossessata della mia vita non era mia. Fino a quando non sono partito, per la leva e per lavoro. Ciao fidanzata ingombrante, ciao modo di pensare “incastrato” in un  “e che dobbiamo fare”. Ciao stereotipi di periferia, tutti uguali dal gel alla cintola fino alle scarpe firmate.

Ero libero, finalmente. Libero di vivere le mie imperfezioni e la mia strada. Giusta o sbagliata, ma comunque la mia. 

E’ per questo che verso i diciassette anni, spesso prendevo un autobus, marinando la scuola, e giravo all’infinito. Senza meta, da solo. Pensando al mio futuro. Allora alzavo il cappuccio della felpa e scrivevo e pensavo e sognavo. Sognavo una stanza ed una scrivania che non ho mai avuto e che adesso non ho più per altri motivi.

Un grande scrittore, Auster, dice che “nulla è reale tranne il caso”. E se tutto accade per caso, va bene proverò a lasciarmi andare. Murakami mi ha accompagnato i primi anni a Bologna, una città dotta e grassa, ma piccola, libera e aperta, per un ragazzo della periferia est di Napoli. Il mio quartiere Barra è grande come l’intera città di Bologna, ma non c’è una libreria mentre a Bologna sono più di trenta. E così d’improvviso conobbi Brizzi e Jack che voleva uscire dal gruppo, non era Dostoevskij ma era una cesoia. 

Mio figlio adora i libri. Certo non sa leggere, forse è attratto dai colori, ma ogni settimana faccio un salto dal libraio di libri usati dove con pochi euro posso prenderne anche due o tre, ormai quasi più per lui che per me. Si sta affezionando un po’ troppo al tablet, spero gli venga la nausea. 

Non l’obbligherò mai a leggere. Vorrei lo facesse per osmosi. I miei libri adesso sono in camera sua, dove non ho più la scrivania. Ho messo quelli più impegnati in alto, potrà raggiungerli crescendo. In basso ci sono i suoi, sui numeri e quelli con le finestrelle. Ho fatto così anche con gli strumenti musicali. Chitarra e pianoforte accessibili. Sceglierà lui. 

Quando mi leggerai. vorrei non fraintendessi. Io adoro la città in cui sono nato. Tanto che ancora oggi quasi diciassette anni dopo non riesco a sentirmi Bolognese. Quindi ne Napoletano ne Bolognese. Di Napoli ho preso l’accento e la caparbietà.E sono convito di una cosa. Se oggi sono io, è perché sono cresciuto in periferia, dove non c’era una libreria. I libri non mi hanno cercato, l’ho fatto io. E lo farò ancora. Perché “nulla è reale tranne il caso”.




domenica 9 ottobre 2016

Bachelite ovvero sogno di una notte in camera presso via delle Industrie

Chiudo la porta. 
Non devo girare la chiave nella toppa, sono usciti tutti nella loro lotta contro il tempo. In casa io e il nonno che non entra senza bussare; 
poi è sordo e l'apparecchio serve a poco.
Ho appena riagganciato il telefono di bachelite: chissà se i miei si decideranno a comprare un cordless: per una telefonata è più intimo l’apparecchio del bar! 
Gaia mi ha confidato che è cotta di Ugo, virtuoso fighetto, maledetto polistrumentista. Resto qualche secondo con la schiena sull’uscio, ripetendo le sue parole. 
Tiro fuori l’aria dai polmoni e decido che ho bisogno di sfogarmi. 
Faccio buio con la tapparella, nascondendomi dagli occhi della raffineria. 
Accendo pc e lampada: la luce artificiale da vita ai colori della mia stanza. 
Apro l’armadio, lo stesso da quindici anni, come dimostrano le figurine di Maradona. Dietro le felpe nascondo la camicia e i pantaloni di pelle. 
Metto anche la fascia tra i capelli ricci. 
Mi rivolgo ai poster dei miti del rock, miei complici: 
“Jimi, abbiamo solo mezzo secolo che ci divide.”  
Poi penso:
“E miliardi di note che non suonerò mai come te.” 
Janis ammicca, Mick e le altre pietre rotolanti m’incitano ed Eric sorride.
Con un calcio faccio sparire il fodero sotto il letto, tra mille altre cose che un giorno sistemerò. 
É un rituale, accarezzo le corde e imbriglio la chitarra.
“Tu preferisci Ugo? O resterai mia anche se suono uno schifo?” 
Le cuffie avvolgenti mi attendono. 
I miei otto metri quadrati di stanza accolgono il più grande chitarrista di sempre. 
O solo il più grande strimpellatore del condominio! Chiudo gli occhi e nel camerino mentale tra il rimmel delle groupie, non c'è la mia musa. Si perderà le mie struggenti note. 
Li riapro, il soffitto rifulge le stelle fluorescenti, sembra di essere sotto il cielo dell’isola di Wight. 
Scompare il cemento, gli astri plastificati diventano reali. Via delle Industrie come Woodstock. 
Guardo la foto sul comodino, tra il libro di Fante e quello di storia: è seduta sul letto con la felpa che le ho portato da Dublino. 
“Sei importante per me, non potrei fare a meno del mio migliore amico”.
Amico un cazzo! Ti amo. Sentimento bastardo.  
La folla è in delirio, sarà un evento storico. Voglio sotto il palco le mie adorate fan. Clicco e lancio la base di Little Wing. 
Spalle alla porta, sguardo rivolto all'orizzonte finito della finestra chiusa, mente proiettata a cavallo dell'atlantico. O  solo sotto casa sua. 
Nonostante il suono sia diretto alle orecchie, sento le vibrazioni che mi attraversano: il palazzo trema al passaggio dei tir che scarrozzano indisturbati per strada. 
Suono ad occhi aperti, non sono bravo, guardo il manico, cerco sicurezza. Tra tasti e corde incrocio ombre tribali sul muro e intravedo ancora la foto. Potrei spingerla a faccia in giù, ci ripenso. La cerco tra le note: non accade e stecco una battuta.
Il pezzo entra nel vivo. Mi agito, inciampo nel cavo del modem, sbatto contro uno spigolo: è un movimento ripetuto, ci sarà il momento del dolore, domani. 
Sono in estasi con la mia Stratocaster coreana, è l’assolo finale. Sudo come un disperato, sfinito, sfogato e contento.
Senza voltarmi schiaccio il pedale della distorsione che zittisce la bestia. Nelle cuffie un fruscio soave mi graffia la schiena. 
Esco dalla spettacolare apnea; con devozione depongo lo  strumento, ho bisogno d’aria. Nel rialzare la tapparella un riflesso mi fulmina. La porta è aperta.
“Mio Dio”.
Mi giro rosso in viso, non per la prestazione.
“Che ci fai qui?” 

Riesco a dire solo questo quando vedo nella penombra il suo stronzo sorriso incastonato nella sua immensa bellezza.

sabato 30 aprile 2016

Fenomenologia del bastone da Selfie

Fenomenologia del bastone da Selfie

In principio era il Verbo... Meglio non puntare così in alto.
In principio era il rullino.
Se si vuol risalire al primo selfie della storia bisogna tornare ad un oggetto, il rullino appunto, che i nostri figli forse non vedranno mai. Era totalmente diverso da un selfie. Il risultato era frutto dello sviluppo. E lo sviluppo non era sempre garantito, specie prima delle macchine automatiche, quando era fondamentale il tempo di fissaggio e la camera oscura.
Poi arrivarono in tempi diversi, ma che storicamente fanno parte del passato le polaroid e le macchine per fototessera. E fu già fenomeno e fu già novità narcisista.
La foto con gli amici e l'amore della gioventù nella macchinetta automatica fa molto tempo delle mele. (i nostri nipoti non sanno di un cult che ha fatto la storia del cinema con Sofie Marceau girato negli anni 80).
Mettiti in posa, è partito il tempo alla rovescia. e via quattro foto, quattro otto dodici volti, smorfie e sorrisi. Una per uno senza possibilità di duplicazione. Almeno fino alle ultime che ti fanno scegliere se ti piace la foto.
E le polaroid, ormai il nome della marca è diventato nome comune di cosa. Una macchina che in un instante o poco più come una linguaccia tirava fuori un quadrato che dovei agiare prima dell'uso.
Ed ecco il risultato. Oddio ma chi c'è dietro che fa photobombing? No un passo indietro, ai tempi della polaroid non esisteva... chi è quello nella foto? C'ha rovinato una posa, perché il numero di foto era esiguo ed anche una sola andata male era un problema.
Poi arrivarono le primissime digitali, costo direttamente proporzionale ai pixel. Ma chi riguarda le milioni di foto mai stampate? Con il tempo i pixel hanno cominciato ad aumentare ed i costi e le dimensioni a diminuire, tanto che in un palmo di mano si hanno risoluzioni inimmaginabili ai tempi di rullino, polaroid e macchinette. Caspita hai dimenticato il passaggio delle usa è getta, ideona durata l'arco di qualche lustro. Chi non ha almeno una usa e getta nel cassetto da portare a sviluppare? (forse chi ha meno di 20 anni non può capire).
Tornando però alle minuscole dimensioni delle digitali, talmente piccole da essere incorporate in una biro, in un bottone su di una giacca. In un telefono, che nel frattempo ha cambiato nome.
Smartphone, che poi non significa realmente quello che rappresenta, sarebbe stato opportuno chiamarlo allphone.
Ma da solo non avrebbe fatto esplodere il fenomeno selfie. Aveva bisogno di un complice, quel social che viene a dargli man forte. Anche qui si potrebbe scrivere una fenomenologia - Facebook, Instagram, Twitter, Whatup, LinkedIn.... ma non è argomento del post. Quindi restiamo sulle foto.
Smartphone più social uguale selfie. Visi, smorfie, piedi e gambe al mare, piatti (no quello è foodselfie). I cinesi che non ho ancora citato in questa storia sono sottobraccio ma sono presenti in ogni chip. Il selfie si fa puntando il mirino ops, l'obiettivo del telefono (ormai double-face) verso il proprio volto e quello degli altri presenti meglio se tanti tutti insieme. E click. E qui arrivano i cinesi in pompa magna. Reggere cliccare puntare mettere a fuoco (no quello è automatico) con una sola mano è estremamente complicato. E cosa tirano fuori dalla borsa di Mary Poppins che si chiamerà in cinese Liu Chin Popping? Un ombrello? No un bastone dove ad un estremità viene collegato lo smartphone. Con un sistema (in alcuni casi bluetooth) dall'estremità tenuta invano è possibile scattare.
Ed è boom. Ragazzi, giovani, bambini, vecchi, adulti, nerd, emo, hipster...
Tutti con il bastone. Nelle piazze, sulle barche, in teatro, al mare, in pizzeria, ad un battesimo come dal fruttivendolo.
Aspetta facciamo un selfie mentre scrivi un articolo sulla fenomenologia del bastone da selfie...

Ps hp preso la foto da questo indirizzo:http://t1.uccdn.com/it/images/4/9/1/img_15194_ins_73770_orig.jpg


mercoledì 11 giugno 2014

Nuje vulimm' na speranza pe campa' riman'


Per chi non ha vissuto almeno un giorno l’agonia napoletana, e per vissuto intendo essere radicati nel territorio, è difficile accettare una serie come Gomorra. O forse è più facile. È più facile rispetto a quei napoletani, come molti miei parenti e conoscenti, che non sono collusi, ma che troppo presto hanno accettato come fisiologica la convivenza con la malavita, che rifiutano di ammettere. Tornare a Napoli e vedere manifesti contro una serie TV mi fa ridere, anzi no, mi disgusta. E non perché sono profondamente grato a Saviano per quanto ha scritto. Ma per il fatto che amo così profondamente la mia terra che sono giunto al punto di odiarla.  Perché non un manifesto contro lo spaccio a cielo aperto, o contro i magnacci delle prostitute a Gianturco o contro i mille, milioni di magazzini, le centomila attività sponsorizzate e più dai clan, colme stracolme di gente ignara e no. I ristoranti lavatrice, producono tonnellate di tovaglie sporche e lavano quintali di denaro macchiato di sangue. Eppure solo scappando mi sono salvato, cosa sarebbe stato di me in quel pezzo di mondo? Non ho avuto il coraggio di restare e ribellarmi. Ho comprato più di una discografia in piazza Garibaldi, ho indossato più Nike io, (false) che Cristiano Ronaldo. Ho mangiato più mozzarella di bufala mafiosa (e chissà quanta diossina) che ogni altra forma di latticino. Ho visto e sentito vibrare l’aria sotto i colpi di pistola e di notte sotto fuochi d’artificio che annunciavano, e annunciano ancora lo sbarco di sigarette prima, ora chissà. Conosco gente che faticosamente ha acquistato casa ad Acerra ed oggi è costretta a scappare, dove poi, a Barra. Ho condiviso i banchi di scuola, quando questa non era utilizzata come laboratorio per confezionare dosi, con bravi ragazzi e con bravi – in senso manzoniano – che dovevano esser tenuti buoni, per questo non potevo mai tirargli un pugno o permettermi di alzare la voce, anche quando finivo nel bidone della monnezza.  Mio fratello vive ancora tra la Manifattura del Tabacco e il triangolo della Morte. È cresciuto lì ed è rimasto lì. Abbiamo giocato a pallone sotto i ponti della Residenziale perché non potevamo permetterci una stagione in una squadra di calcio giovanile della camorra; si è visto rubare una Uno regalatagli da nostro zio e minacciare con una pistola andando a trovare il nonno appena fuori la 167, per un Citizen. Ma è rimasto lì. E si sente toccato quando qualcuno gli spala in faccia la merda che ha sotto i piedi. Se ci sei dentro dopo un po’ non senti più la puzza, anzi ti da fastidio quando qualcuno, ribaltandola, la fa esalare.  Se ci sei dentro ti fa male se ti toccano il livido, che lasciato buono, è solo un segno sulla pelle.  Eppure ondeggia ancora tra il negozio in cui fa il commesso nel centro commerciale di Via Argine, che affonda ogni suo pilastro nella terra dei fuochi e nei soldi dei clan, e i concorsi nei vigili del fuoco, sperando di racimolare quanto gli serve per pagarsi la raccomandazione. Laureato con lode in ingegneria. Deve girare senza casco passando per la Villa con la vespa, rischiando la vita cadendo, con minor possibilità comunque di essere scambiato per un killer.  Non vuole lasciare Napoli, per mamma, per papà per quella nostalgia tipica dei brasiliani, dei meridionali, dei terroni del mondo come me. Napule è comme 'na vota ma nuje dicimmo ca adda cagna' , canta Daniele. Dubito che possa riuscirci in tempo utile a favorire il mio ritorno. Ma un giorno mi piacerebbe tornare e godere dell’aria di mare, vorrei scorrazzare nei pressi del litorale Domizio di sera senza paura. Godermi Spaccanapoli e fotografare Banksy senza timore. Perché Napoli non è solo Camorra, Diossina e Mandolino. E non basterebbe un post per elencare le sue meraviglie. Ti saluto con le parole di Nto e Lucariello. Ciao Napoli… 'e cose nun cagnano e nuje alluccamm'  sulo quand 'e guaje ce stann' tuccann'… Nuje vulimm' na speranza pe campa' riman'