Nato da un idea di Silvia
Avallone
Di librerie pullulava, la città,
ma solo in centro.
In periferia, a Barra, qualche libro lo vendeva l’edicola. Ma solo i
titoli, i bestseller. Nel mio quartiere le pagine più vendute erano quelle di
cronaca, nera e sportiva, morti ammazzati e Maradona. Io frequentavo l’umida
edicola dove si incrociavano Via Figuerelle e Corso Sirena, dove acquistavo
quintalate di Topolino, anche vecchie copie.
Mia madre invece leggeva i
romanzi Harmony, come credo tutte le casalinghe d’Italia, non solo di Voghera, a
cavallo tra gli anni ottanta e novanta. E li scambiava, ogni due romanzi potevi
averne uno, sempre usato. Così restavano in casa nostra appena il tempo di
essere letti; mamma li divorava.
Il primo libro che ho letto io è
stato “I ragazzi della via Pal”. Regalo di uno zio che lavorava in centro, dove
c’erano le librerie, quelle vere. Copertina in cartonato giallo. Non l’ho letto, l’ho bevuto, d’un fiato, senza
respirare, come quando andavo in apnea al mare, mentre gli altri si crogiolavano
al sole. Era il 24 settembre giorno del mio compleanno.
Per me leggere è sempre stata una scommessa. Non un manifesto, ma una cosa intima. Mi vergognavo, perché gli altri
erano tutti per il calcio e la bici e gli sport di strada e la sopravvivenza, in
un posto dove la strada è il centro nevralgico della vita (la periferia di
Napoli). Ed io a calcio ero lento e grasso, e sulla mia Graziella non correvo
nemmeno se ero trainato; leggere non era fisico, ero qualcosa di statico come me all'epoca.
Vennero poi gli anni delle superiori, dell’istituto
tecnico. E non il liceo perché dopo dovevi andare “per forza” all’Università, e
chi sapeva se potevamo permettercela? Meccanica, per la precisione. In classe
con me di tutto: ripetenti ventenni e ragazzi in permesso studio dal
penitenziario.
Per me era un gioco. Credo che mia madre non mi abbia mai visto
restare sui libri più di venti minuti. In classe mentre ero bersagliato da
insulti, cassini dietro la testa e rotoli di carta igienica, riuscivo a
scrivere ogni singola parola che veniva proferita dai professori. Era semplice,
a casa bastava giusto fare le consegne scritte. E poi registravo. Registravo
cassette per Umberto, mio compagno di banco, cassette in cui spiegavo dalla storia alla fisica. Certo con ”Aggiustaggio” non ero
una cima, ma questa materia l’hanno poi soppressa.
E poi io leggevo, senza riscuotere
successo. Non facevo colpo. Ero la minoranza assoluta. O forse no, lo scoprii
molto tempo dopo. Di notte sotto le coperte con una lampadina. Cosa che mi ha
portato a profonde borse ancora oggi visibili. Ma perché mi nascondevo? Mi
sentivo inadeguato per il mondo che mi circondava.
Più che discoteche, i ragazzi del
’79 e dei primi anni ottanta, negli anni ’95 e a seguire, occupavano
circoletti, scale di palazzi e muretti, ma a Barra e precisamente sulla
Residenziale (quella che in realtà si chiama via delle Repubbliche Marinare) si
radunavano sotto al ponte, dove adesso si radunano solo tossici e contrabbandieri)
per giocare a tutte le ore al calcio. Non si ascoltava musica, forse qualcuno i
neomelodici, che a Napoli sono sempre esistiti. Io avevo le cassette di Lucio
Dalla e dei Queen registrate a casa di mio zio, si, quello del primo libro, e la
sua chitarra e poi anche la mia. A calcio non contavo niente. Anche quando
servivo per fare numero, era come non esistessi in campo, o meglio, sotto al
ponte. La chitarra non era poi d’aiuto, non sapevo suonare canzoni moderne,
solo Daniele e Battisti e nemmeno bene.
Non riuscivo ad espormi, non
volevo. Quando iniziai a migliorare, con la chitarra alle feste venivo chiamato, per suonare mentre i miei amici ballavano i lenti. Ero certamente goffo, non so fino
a che punto sbagliato. Quando raramente venivo a contatto con la palla, ero
imbranato e non mettevo insieme nemmeno un passaggio. Quando raramente mi
piaceva una ragazza, ero il cantastorie ed il pivello. E allora fantasticavo. Sognavo ragazze,
ragazze che sognavano i miei amici svegli e spudorati. Sognavo di conquistarle
con frasi tratte da Narciso e Boccadoro o con una canzone di Pino, “Allora si”.
E così poco dopo partii per Lourdes, come barelliere. Non avevo ancora diciotto
anni, ero fissato con una ragazza che mi credeva il suo miglior amico e conobbi
il mio sosia femminile. Non dimenticherò mai le sue lettere, poche a dire il
vero; non dimenticherò mai quella citazione che mi ha cambiato la vita, di una
delle Bronte. Almeno per quella settimana fui diverso. Mi senti Salvatore
grazie a Valentina da Eboli. Una ragazza da liceo che leggeva le Bronte in
inglese e che adorava Pino Daniele che vibrava sulla mia chitarra, mentre
ubriaco solo di felicità cantavo sotto al suo albergo a Lourdes. Fini
affievolendosi man mano, ma è restato come la cicatrice di un taglio su di un
dito.
Un passo indietro. Quando ebbi l’età
per potermi recare in centro da solo, verso i quattordici anni, iniziai ad esplorate
le bancarelle di via Mezzocannone, comprando un mucchio di libri. Da Edgar
Allan Poe, al primo Baricco, da Wilbur Smith alla biografia di Jimi Hendrix. Ne
sfogliavo a milioni. E quell’odore di carta che mi sembra ancora di sentire era
carburante per i miei muscoli mentali. Così i miei dovettero comprare una
libreria. Non ho mai letto però un classico o di filosofia. Qualche anno dopo
avrei scoperto la letteratura americana, sempre più giovane. Così sono passato
da Steinbeck a Carver tra Auster e De Lillo, fino ad Eggers e a Safran Foer.
Curiosando nella mia libreria a
Bologna, ti accorgerai che però i titoli sono variegati. Il più vecchio è un
manuale di Fisica di fine ottocento, il mio più caro un Libro Cuore dei cugini
di mio padre, ed una quantità sconsiderata di ogni genere. Calvino a gogò,
tutto Brizzi e Ammaniti, qualche giallo e qualche Horby. Ma anche qualche
enciclica di fianco a Bukowski.
Non è stato facile vivere la mia
gioventù. Non sentirsi adatto, non sentirsi se stesso. Non sentirsi nessuno e
non sentire nessuno come te. Litigare con tutti. “Sei sempre nervoso” mi
dicevano e mi dicono ancora. “Sei permaloso”. Quando invece volevo solo che le
cose qualche volta fossero dalla mia parte. La routine che si era impossessata
della mia vita non era mia. Fino a quando non sono partito, per la leva e per
lavoro. Ciao fidanzata ingombrante, ciao modo di pensare “incastrato” in un “e che dobbiamo fare”. Ciao stereotipi di
periferia, tutti uguali dal gel alla cintola fino alle scarpe firmate.
Ero libero, finalmente. Libero di
vivere le mie imperfezioni e la mia strada. Giusta o sbagliata, ma comunque la
mia.
E’ per questo che verso i
diciassette anni, spesso prendevo un autobus, marinando la scuola, e giravo all’infinito.
Senza meta, da solo. Pensando al mio futuro. Allora alzavo il cappuccio della
felpa e scrivevo e pensavo e sognavo. Sognavo una stanza ed una scrivania che
non ho mai avuto e che adesso non ho più per altri motivi.
Un grande scrittore, Auster, dice
che “nulla è reale tranne il caso”. E se tutto accade per caso, va bene proverò
a lasciarmi andare. Murakami mi ha accompagnato i primi anni a Bologna, una
città dotta e grassa, ma piccola, libera e aperta, per un ragazzo della periferia
est di Napoli. Il mio quartiere Barra è grande come l’intera città di Bologna,
ma non c’è una libreria mentre a Bologna sono più di trenta. E così d’improvviso
conobbi Brizzi e Jack che voleva uscire dal gruppo, non era Dostoevskij ma era
una cesoia.
Mio figlio adora i libri. Certo non
sa leggere, forse è attratto dai colori, ma ogni settimana faccio un salto dal
libraio di libri usati dove con pochi euro posso prenderne anche due o tre,
ormai quasi più per lui che per me. Si sta affezionando un po’ troppo al
tablet, spero gli venga la nausea.
Non l’obbligherò mai a leggere. Vorrei lo
facesse per osmosi. I miei libri adesso sono in camera sua, dove non ho più la
scrivania. Ho messo quelli più impegnati in alto, potrà raggiungerli crescendo.
In basso ci sono i suoi, sui numeri e quelli con le finestrelle. Ho fatto così
anche con gli strumenti musicali. Chitarra e pianoforte accessibili. Sceglierà
lui.
Quando mi leggerai. vorrei non
fraintendessi. Io adoro la città in cui sono nato. Tanto che ancora oggi quasi
diciassette anni dopo non riesco a sentirmi Bolognese. Quindi ne Napoletano ne
Bolognese. Di Napoli ho preso l’accento e la caparbietà.E sono convito di una cosa. Se
oggi sono io, è perché sono cresciuto in periferia, dove non c’era una
libreria. I libri non mi hanno cercato, l’ho fatto io. E lo farò ancora. Perché
“nulla è reale tranne il caso”.